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Fonte:
www.valigiablu.it
Se negli ultimi tempi (e non solo) avete avuto la sensazione che il discorso sulla violenza contro le donne e i femminicidi si stia avvitando su sé stesso in un’eterna riproposizione delle stesse dinamiche che non porta ad alcun cambiamento, non si tratta di un’impressione. Ogni caso di femminicidio che provoca scalpore – quasi sempre quello di una donna giovane e bella, preferibilmente bianca, perché di quelle più anziane o razzializzate non ci importa molto – finisce per generare lo stesso, sconfortante loop.
Si comincia con la notizia, a cui segue la reazione di sgomento immediata da parte della comunità femminista, che mette il caso sotto la lente d’ingrandimento e ne enfatizza gli aspetti più esasperanti: l’assenza delle forze dell’ordine, la carenza delle misure di prevenzione, i ripetuti tentativi della donna di cercare aiuto, i segnali ignorati o minimizzati, le sentenze che sembrano attribuire una giustificazione almeno parziale alle azioni dell’assassino. Da lì si procede con una copertura sempre più dettagliata e morbosa delle indagini e dei retroscena, in cui un panorama mediatico povero di etica e affamato di visualizzazioni cerca di inventarsi ogni giorno qualcosa da raccontare sul tema caldo, mantenendolo al centro dell’attenzione. La vita della vittima viene scandagliata alla ricerca di ombre che possano in qualche modo svalutarla, l’assassino (se sopravvive) viene raccontato attraverso i contrasti fra la sua immagine pubblica e i comportamenti privati.
L’obiettivo è creare orrore attraverso la percezione di un divario fra le aspettative (a uccidere sono solo i bruti, gli ignoranti e i subumani, giusto?) e la realtà (il violento può essere ed è chiunque). I femminicidi in carcere piangono molto, chiedono scusa alle famiglie, si dicono “dispiaciuti” per l’accaduto, come se il femminicidio fosse una cosa che succede e non un atto che presuppone intenzionalità. Appena il caso aggrega abbastanza massa critica da trasformarsi in una macchina da clic, ecco che arrivano le opinioni provocatorie degli sciacalli che si collocano nello spazio classificato come “Non tutti gli uomini!” e “Se non denunci te la sei cercata”, passando per “Anche le donne sono violente”, fase che inevitabilmente attira l’attenzione delle fasce più sensibili all’argomento, e le attinenti reazioni.
Nel mezzo, la politica prende o meno posizione a seconda della convenienza e si annunciano “interventi”, rigorosamente al futuro e con un impegno di spesa pressoché nullo. Non c’è quasi stato caso di femminicidio negli ultimi anni in cui il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara non abbia annunciato l’intenzione di “insegnare il rispetto” nelle scuole: sono passati quasi due anni esatti dalla morte di Giulia Cecchettin, e i provvedimenti varati in questo senso sono zero, nonostante l’intesa siglata con la fondazione guidata dal padre di Giulia, Gino. Anzi, dalla Lega, partito a cui fa capo Valditara, arrivano emendamenti pensati per vietare l’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole. Educazione sessuale che al momento le scuole organizzano in maniera autonoma e del tutto a macchia di leopardo, dato che i fondi non ci sono, i docenti preposti nemmeno, e tutto è demandato alla buona volontà delle associazioni locali, che Valditara si è premurato di delegittimare, accusandole di “indottrinamento”. Nel frattempo, la donna morta rimane morta e può essere usata come cartonato da chiunque abbia bisogno di un aggancio per portare acqua a questo o quel mulino.
Potremmo farlo anche questa volta, con il femminicidio di Pamela Genini. Stando a quanto emerso dalle immagini finora, sembrerebbe infatti avere tutte le caratteristiche di altissimo profilo: una morte agghiacciante in diretta telefonica, un uomo che non è stato fermato, una denuncia mai fatta, un Codice Rosso (la legge varata nel 2019 a prima firma Giulia Bongiorno) che si rivela inutile e inefficace nel compito di salvare una vita. Gli elementi ci sono già tutti, e nel frattempo abbiamo aggiunto l’avvio dell’iter parlamentare che identifica il femminicidio come fattispecie di reato nel nostro codice penale e lo punisce con l’ergastolo. Un provvedimento che non è ancora legge, ma la cui portata simbolica non è evidentemente stata sufficiente a far desistere non solo l’assassino di Genini, Gianluca Soncin, ma nemmeno tutti gli altri uomini che nei mesi dall’avvio delle discussioni sulla legge (sottolineate con grande enfasi dai media nazionali) non si sono certo fatti fermare dall’idea di stare commettendo un reato gravissimo.
In tutto questo, l’approccio della politica – in particolare delle destre, ma non solo: nessuno è innocente – è sostanzialmente panpenalista, vale a dire: per ogni reato ci deve essere una pena e tutto si affronta con la punizione. Una strategia che va benissimo per affollare le carceri, ma che non fa assolutamente nulla per affrontare il tema della violenza, né quella contro le donne né quella, in generale, che si manifesta nella società. Secondo diversi studi, l’effetto deterrente della pena (la sua durata, o la percezione della gravità legata al riconoscimento di un comportamento come reato) incide in maniera molto minore rispetto alla possibilità di essere scoperti e puniti, al miglioramento delle condizioni socio-economiche dei territori e delle comunità e al lavoro di prevenzione e contrasto della criminalità. I paesi in cui vige la pena di morte, com’è noto, non hanno registrato un decremento significativo del tasso di omicidi: negli Stati Uniti questo tipo di reato è rimasto stabile nel tempo, mentre nei paesi europei il dato complessivo è diminuito in maniera significativa, e fra questi paesi l’Italia è quello con il dato più basso.
Un dato che invece è stabile è quello degli omicidi in famiglia, le cui vittime sono in prevalenza donne. Un fronte su cui la prevenzione è stata scarsa, se non nulla. Non si è lavorato (e si continua a non lavorare) sulla salute mentale, sulle relazioni, sull’autonomia economica delle donne, sulla violenza psicologica ed economica. I centri antiviolenza boccheggiano in attesa di finanziamenti e sostegno da parte delle istituzioni. La formazione alle forze dell’ordine è sporadica, le leggi esistenti insufficienti, e il ministro della Giustizia raccomanda alle donne minacciate dagli ex partner di rifugiarsi in farmacia o in chiesa. Sopra ogni cosa, manca – per dolo e non per caso – il riconoscimento del femminicidio come questione di genere, culturale e non biologica: azione che dovrebbe portare a un’assunzione di responsabilità collettiva da cui nessuno sarebbe esentato. Nemmeno i ministri del governo Meloni né la stessa presidente del Consiglio, che da sempre si avvolge nel maschile grammaticale nel tentativo di acquisire prestigio.
Nessuno è innocente, nemmeno i governi precedenti a questo, che se non altro è trasparente nel suo disprezzo per il lavoro dei femminismi sulla violenza e sulle sue cause. Se ne parla da decenni, ma gli interventi preventivi sono stati minimi. La condizione di oppressione delle donne e la loro liberazione dalla minaccia della violenza sono, quando va bene, una voce di spesa nei programmi dei candidati (in maggioranza maschi) e non certo una parte fondativa del discorso ideologico. La destra ne fa una questione individuale, in cui ogni donna deve risolvere il problema per sé quando il problema si presenta. Il centrosinistra, finora, non si è discostato granché da questa linea. Ci sono sempre altre priorità, ma soprattutto: la violenza serve, e il maschio violento è l’utile idiota del patriarcato capitalista, che ha bisogno del lavoro sottopagato e non pagato delle donne per mantenere in piedi l’assetto del potere. Non è un caso che l’ascesa delle destre al potere coincida con una maggiore radicalizzazione dei giovani maschi, ai quali gli uomini adulti non sono in grado di fornire modelli di maschilità alternativi a quello tradizionale, basato sul controllo, sul dominio e sul successo. Tutti elementi che vengono minacciati dalla sempre crescente (e legittima) tendenza delle donne e ragazze ad affermare sé stesse al di fuori di una relazione con un uomo, a esercitare il diritto di scelta, a non avere bisogno di un compagno per autodefinirsi, a rifuggire il ruolo ancillare e di cura.
Ci troviamo ancora una voltai di fronte al disconoscimento di una necessità: interrogare la maschilità per riconoscere ed eliminare gli elementi tossici che vengono tramandati di generazione in generazione, e che fanno sì che gli esseri umani socializzati come maschi siano incentivati, e non disincentivati, a scegliere la violenza come metodo di risoluzione dei conflitti o come sfogo per la propria rabbia. Il circo mediatico, gli opinionismi a buon mercato, la vittimizzazione secondaria operata a danno delle vittime, la resistenza al cambiamento e le bugie dette senza il minimo senso di colpa servono solo a tenere tutto come sta.
L’unica possibilità di progresso sta nell’organizzazione dal basso. Aspettiamo gli uomini, quindi, che finora sono rimasti quasi inerti, incapaci di andare oltre generiche dissociazioni, mea culpa finalizzati solo al posizionamento personale, e quasi nessuna volontà di collettivizzazione del problema. Le donne non possono risolvere un problema che non hanno creato, e stanno facendo e fanno già tutto quello che possono. La palla è in un altro campo, ed è ferma da un bel po’.
(Immagine in anteprima: frame via YouTube)
Il femminicidio di Pamela Genini: andare oltre il ciclo dell’indignazione e della spettacolarizzazione
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