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Fonte:
www.valigiablu.it
Attacchi informatici, rivendicazioni di sabotaggi ferroviari, fuga e diffusione di dati sensibili: sono queste le principali operazioni in cui sono coinvolti gruppi più o meno organizzati di resistenza partigiana, come viene chiamato questo nuovo “movimento di insurrezione democratica” nella Belarus governata da Aljaksandr Lukašenka, al potere da ben 31 anni, e nell’unico paese europeo dove vige ancora la pena di morte.
Il movimento odierno è, infatti, sorto come campagna di resistenza contro il regime autoritario, in risposta alla dura repressione delle proteste antigovernative che hanno coinvolto il Paese nel 2020, dopo i risultati delle elezioni-farsa che hanno riconfermato Lukašenka presidente. Tale resistenza, però, si è poi evoluta e rafforzata con l’invasione russa su larga scala in Ucraina del febbraio 2022, di cui la Belarus è stata complice.
Infatti, mentre l’opposizione democratica bielorussa, nata ufficialmente in esilio il 14 agosto 2020 con l’istituzione del Consiglio di coordinamento guidato da Svjatlana Cichanoŭskaja, ha manifestato il desiderio di veder realizzato un cambio di governo per una svolta democratica della Belarus, altri gruppi di opposizione chiave all’interno del paese, allineati ma di fatto indipendenti, hanno aggiunto al programma anche l’uscita delle truppe russe dai territori bielorussi, e si sono schierati abbracciando apertamente la causa ucraina.
Il governo di Lukašenka non è rimasto fermo a guardare, ma ha subito adottato misure severe nei confronti dei membri di questa resistenza partigiana. I tribunali bielorussi, che sono sotto il controllo del regime, hanno così accusato i partigiani di terrorismo, un reato punibile in Belarus con la pena capitale.
La resistenza partigiana bielorussa: dai “cyber-partigiani” agli “eroi di ferro”
Gettando uno sguardo alla storia della Belarus, scopriamo subito che presenta una significativa tradizione di lotta e resistenza partigiana, leggermente diversa da come però la intendiamo noi. Basti pensare alla Seconda guerra mondiale, periodo durante il quale il paese fu scenario del più grande movimento di resistenza dell’Unione Sovietica (insieme a quello ucraino), con circa 400mila combattenti che lottarono contro l’occupazione nazista. Oggi, a più di ottant’anni di distanza, questa tradizione è rinata sotto forme nuove ma con lo stesso spirito, contro un nemico diverso ma altrettanto oppressivo: il regime di Aljaksandr Lukašenka, considerato un “dittatore illegittimo” e un “occupante interno”, e la sua complicità nella guerra di aggressione russa contro l’Ucraina.
Questa nuova opposizione ha perciò assunto forme indubbiamente più moderne e sofisticate, sempre più in evoluzione. Dal 2020, infatti, dopo le contestate elezioni presidenziali e la brutale repressione delle proteste pacifiche, migliaia di bielorussi hanno scelto la via della resistenza clandestina: non più solo nelle foreste, come i partigiani del passato, ma anche nel cyberspazio e lungo le arterie ferroviarie che attraversano il paese.
I cosiddetti “cyber-partigiani” bielorussi, che collaborano con BYPOL (un gruppo di ex agenti delle forze dell’ordine e dell’intelligence), sono uno dei gruppi di resistenza più attiva ed efficace in grado di colpire i sistemi informatici delle ferrovie statali e altre infrastrutture utilizzate dal regime. Nato in risposta alla brutale repressione delle proteste nel settembre 2020, il gruppo è famoso per gli attacchi informatici contro i governi di Minsk e Mosca. I suoi membri, che lavorano nell’anonimato più assoluto, sono lavoratori bielorussi del settore IT che vivono all’estero, e nessuno di loro è un hacker professionista.
All’inizio le loro operazioni si limitavano all’hackeraggio di siti governativi, ma poi le azioni di intelligence e sabotaggio si sono intensificate: i “cyber-partigiani” bielorussi hanno ottenuto database di passaporti, veicoli registrati, registrazioni dalle celle di isolamento del centro di detenzione temporanea di Okrestina, a Minsk (diventato simbolo della brutalità del regime perché durante le proteste del 2020 perché vi venivano imprigionati i manifestanti) e statistiche sulla mortalità, scoprendo anche che, durante la pandemia di COVID-19, in Belarus ci sono stati molti più morti di quanto dichiarato ufficialmente dalle autorità (oltre 90mila invece di 7.118).
Sono loro i veri responsabili del primo attacco hacker contro il regime russo di Vladimir Putin. Nel gennaio 2022, poco prima che i carri armati russi entrassero in territorio ucraino proprio dal sud della Belarus, un gruppo ha criptato server, database e stazioni di lavoro delle ferrovie bielorusse ostacolando il transito delle truppe russe attraverso il territorio nazionale. La resistenza più significativa è venuta proprio da chi lavora quotidianamente o a stretto contatto con le ferrovie: dall’inizio dell’invasione su larga scala, la Belarus è diventata una base logistica fondamentale per le forze russe, con il territorio meridionale del paese utilizzato come retrovia per l’attacco a Kyiv e come corridoio per il rifornimento delle truppe.
In risposta a ciò, ferrovieri, attivisti e dissidenti delle forze di sicurezza hanno orchestrato numerosi atti di sabotaggio, che rimangono tutt’oggi all’ordine del giorno. Interruzione alle linee di comunicazione, danneggiamenti ai sistemi di segnalazione, blocchi strategici: sono tutte azioni che mirano a rallentare o interrompere il flusso di truppe, armamenti e rifornimenti ai russi. Il più noto, probabilmente, è un grosso incendio a un relè ferroviario compiuto da tre giovani amici di Bobruisk torturati dalle forze dell’ordine durante l’arresto (uno di loro venne colpito da un proiettile alla gamba).
Questi sabotaggi hanno contribuito molto, secondo anche alcune analisi militari, a mettere in difficoltà la logistica russa durante la fallita offensiva sulla capitale ucraina nella primavera del 2022. Ogni treno deragliato, ogni sistema informatico hackerato, ogni informazione trapelata è un atto di resistenza che riduce le capacità logistiche e militari russe. Come ha sottolineato una fonte dell’intelligence ucraina, le ferrovie russe “formano la spina dorsale della logistica dell’esercito e sono un importante finanziatore del bilancio di guerra”. Perciò, colpire queste infrastrutture significa minare direttamente la capacità della Russia di sostenere la sua guerra di aggressione [qui la storia degli eroi di ferro ucraini]
Il ruolo degli anarchici nella resistenza partigiana
“Gli anarchici sono perfettamente integrati nelle strutture della società civile, lavorano come difensori dei diritti umani, come giornalisti, volontari, attivisti e amministratori senza dover nascondere i principi in cui credono e manifestando apertamente le proprie affiliazioni politiche”, afferma l’ex prigioniero politico e attivista anarchico Mikola Dziadok in una recente intervista a Meridiano 13.
E non c’è niente di più vero, perché la resistenza bielorussa contro Lukašenka e la complicità del regime nella guerra in Ucraina include non solo il sabotaggio militare coordinato ma anche l’attivismo anarchico. Tra loro figura un gruppo formato da quattro anarchici noti come i “Partigiani della Polesia”, una regione paludosa al confine tra la Belarus e l’Ucraina: nell’ottobre 2020, Ihar Alinevič, 37 anni, già condannato a 8 anni nel 2010 per l’attacco all’ambasciata russa e graziato nel 2015, insieme a Dzmitryj Duboŭski (che era stato latitante per un decennio), Sjarhej Ramanaŭ e Dzmitryj Rjezanovič, ha attraversato illegalmente il confine dall’Ucraina per condurre azioni dirette contro il regime.
Il gruppo, che ha vissuto nei boschi con equipaggiamento da campo, razioni, armi da fuoco e dispositivi GPS, ha compiuto una serie di incendi mirati. In particolare, il 21 ottobre 2020, sono state bruciate quattro auto davanti alla procura di Salihorsk e all’edificio del Comitato statale per le perizie giudiziarie, lasciando la scritta “capo, sei tu il prossimo”, rivolta al direttore generale della “Belaruskali” (una delle più grandi aziende statali della Bielorussia e produttore mondiale di fertilizzanti potassici), accusato di aver tradito i minatori in sciopero.
Sempre nell’ottobre di quell’anno, la sede della GAI (la polizia stradale) a Mozyr è stata oggetto di un’azione avvenuta con delle bottiglie molotov. Il KGB ha definito questo evento come un “atto di terrorismo”.
Arrestati il 29 ottobre 2020 vicino al confine ucraino, i quattro anarchici sono stati sottoposti a torture e detenuti nel carcere del KGB, rischiando la pena di morte secondo l’articolo 289 del codice penale bielorusso. Attualmente sono ancora dietro le sbarre.
L’apice del sabotaggio venne raggiunto, però, il 26 febbraio 2023 con l’attacco all’aereo da ricognizione russo A-50 presso la base aerea di Mačuliščy vicino a Minsk, condotto tramite droni armati. BYPOL ha definito l’operazione come una collaborazione tra ex funzionari bielorussi dissidenti e i servizi di sicurezza ucraini. Nel processo del 2024, dodici persone sono state condannate a pene tra i 2 e i 25 anni di carcere per terrorismo e tradimento, tra cui l’ucraino Mykola Švec, considerato il responsabile principale e condannato in contumacia a 25 anni dopo essere stato liberato in uno scambio di prigionieri. L’aereo A-50, del valore di 330 milioni di dollari, e uno dei soli nove esemplari in servizio, subirono danni significativi che ne compromisero l’operatività durante le operazioni militari in Ucraina.
Questi atti di resistenza, che includono azioni anarchiche individuali e sabotaggi militari organizzati, rappresentano la continuità storica della resistenza partigiana bielorussa dalla Seconda guerra mondiale, dove si combatteva contro un’occupazione considerata illegittima e fascista. Ora di illegittimo la Belarus ha un presidente.
Bielorussi in azione contro la guerra russa in Ucraina
La resistenza partigiana bielorussa non è formata, però, da soli attivisti o militanti. Lo scorso settembre, i media dell’opposizione in Belarus (costretti all’esilio, quei pochi rimasti lavorano clandestinamente, a proprio rischio e pericolo) hanno stimato che circa un migliaio di civili sono stati perseguiti dallo Stato bielorusso per aver diffuso informazioni sui movimenti delle truppe russe attraverso il sito e il canale Telegram Belarusian Hajun, utilizzando fonti di intelligence open source (OSINT). L’azione si è rivelata uno dei più grandi progetti di raccolta di informazioni sensibili dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina e ha avuto un successo esplosivo, con oltre 30mila informazioni inviate nei soli primi 45 giorni dell’invasione.
Creato nel 2022 dall’attivista Anton Motolko, Belarusian Hajun (Hajun è un personaggio mitologico bielorusso, uno spirito della foresta, simbolo perfetto per chi opera nell’ombra contro l’occupazione) era un progetto OSINT di monitoraggio che teneva traccia delle attività militari delle forze armate russe e bielorusse, fornendo informazioni preziose ai civili e alle forze armate ucraine. Tuttavia, a seguito di un accesso non autorizzato a inizio febbraio 2025 da parte delle forze di sicurezza bielorusse, ha chiuso i battenti. Belarusian Hajun aveva probabilmente i giorni contati: era già stato etichettato e riconosciuto dal Ministero dell’Interno come gruppo estremista a marzo 2022.
Una testimone, rilasciata nel 2024 e fuggita poi dal paese, è l’attivista antifascista Anna Pyšnik, condannata a tre anni di carcere per aver condiviso, nel febbraio 2022, immagini dell’esercito sul canale: “Ho sentito qualcosa di simile a un’esplosione; anche il nostro edificio ha tremato. Sono corsa fuori e ho visto la scia di un razzo. Ho deciso di filmarlo […]. La gente doveva sapere cosa stava succedendo. Così ho inviato il video ai media indipendenti. Due giorni dopo, ho filmato anche gli elicotteri militari che sorvolavano la città”.
Il dilemma di Lukašenka e la dura repressione
La resistenza bielorussa ha posto Lukašenka e la sua cerchia in una posizione difficile. Il dittatore bielorusso sa perfettamente che la grande maggioranza della popolazione non sostiene l’aggressione russa contro l’Ucraina (e non certo dal 2022, ma sin dal 2014). Questo è il motivo per cui, nonostante le pressioni di Mosca, ha evitato di ordinare l’ingresso diretto dell’esercito bielorusso nel conflitto: i soldati e gli ufficiali bielorussi hanno infatti mostrato chiari segni di riluttanza, con numerose diserzioni e rifiuti di partecipare alle operazioni militari contro l’Ucraina. A ciò si aggiunge che esiste, peraltro, un intero battaglione di volontari bielorussi che combatte contro i russi in Ucraina, il Reggimento Kalinoŭski, il cui comandante è Pavel Šurmej, ex vogatore olimpico che volò direttamente dagli Stati Uniti per unirsi alla lotta dopo l’invasione su vasta scala.
La risposta del regime è quindi feroce. Lukašenka ha intensificato la già presente repressione contro ogni forma di dissenso, introducendo anche la pena di morte per alcuni reati legati al “terrorismo” e all’ “estremismo”, etichette, queste, spesso applicate arbitrariamente agli oppositori politici e ai sabotatori. Migliaia di persone sono state, e vengono ancora oggi, arrestate, torturate, imprigionate.
Dall’altra parte, però, la resistenza continua. Ogni atto di sabotaggio, ogni interruzione delle linee ferroviarie, ogni fuoriuscita di informazioni militari è un messaggio chiaro: il popolo bielorusso non è complice dell’aggressione contro l’Ucraina, né tanto meno favorevole al governo del loro despota. Come aveva dichiarato la leader dell’opposizione in esilio Svjatlana Cichanoŭskaja nel marzo 2022: “Lukašenka non è la Belarus. I bielorussi che sono fuggiti dal Paese e i bielorussi nel nostro Paese sono contro questa guerra”. Sottolinea inoltre come l’attuale presidente bielorusso condivida la piena responsabilità per questa aggressione, perché ha dato in concessione le terre bielorusse per le truppe militari che stanno invadendo l’Ucraina.
La resistenza partigiana bielorussa rappresenta una delle forme più concrete di opposizione a regimi autoritari nell’Europa del XXI secolo. È una storia di coraggio ordinario, di persone comuni che scelgono di rischiare tutto per principi di libertà, democrazia e solidarietà internazionale. È una storia che ci ricorda come, anche nei momenti più bui, la resistenza civile e l’opposizione dal basso possano fare la differenza.
Immagine in anteprima via New Eastern Europe
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