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Fonte:
bikeforgood.it
Abbiamo costruito città a nostra immagine perché scappino dai problemi, ma le città non si muovono e soccombono
Studiando il forest bathihng, mi sono imbattuto nel concetto di città vegetali nel libro di Stefano Mancuso Fitopolis.
Invece che un trattato di botanica è quasi un manuale di urbanistica, con un’interessante riflessione al centro.
Quale? Continua a leggere l’articolo per scoprirlo.
Modello animale e modello vegetale
Le nostre città sono organismi complessi, frutto di secoli di sperimentazioni, errori e visioni politiche. Tuttavia, quasi tutte condividono un limite strutturale: sono costruite secondo il modello animale:
- gerarchico,
- centralizzato
- specializzato.
Questo modello, che ricalca l’organizzazione del corpo degli animali, è stato utile per millenni a garantire velocità di decisione e reazione.
Ma funziona davvero per le città, che invece non possono muoversi e sono costrette a risolvere i problemi piuttosto che evitarli?
La risposta, come spiega Stefano Mancuso in Fitopolis, è no. Le città progettate secondo il modello animale sono fragili, disfunzionali e incapaci di affrontare sfide come la crisi climatica, la perdita di biodiversità o le crisi economiche. Per sopravvivere al futuro, le città devono diventare città vegetali: organismi
- resilienti,
- policentrici,
- decentralizzati
- generalisti,
proprio come le piante.
Il modello animale: velocità e gerarchia, ma poca resilienza
Gli animali sono costruiti secondo uno schema gerarchico: un cervello centrale che prende decisioni e organi specializzati che eseguono funzioni precise. Il grande vantaggio di questo sistema è la velocità.
Di fronte a un pericolo, un animale può reagire all’istante: scappare da un predatore, spostarsi dove c’è cibo, trovare riparo dal caldo o dal freddo.
Questo modello è stato copiato in tutte le nostre organizzazioni: governi, aziende, scuole, perfino condomini.
E naturalmente nelle città. Pensiamo a come funzionano: un centro direzionale che governa, quartieri specializzati (affari, sport, ospedali, università, divertimento) e infrastrutture pensate per muovere persone e merci rapidamente.
Ma questa organizzazione ha un difetto: funziona bene solo se è possibile fuggire dai problemi.
Le città, invece, non possono scappare. Restano dove sono, devono affrontare le crisi ambientali, sociali ed economiche. E qui il modello animale si rivela inadeguato.
Il modello vegetale: resilienza, adattamento e distribuzione
Le piante non possono correre via da un incendio o da una siccità. Devono risolvere i problemi sul posto. Per farlo, hanno sviluppato un’organizzazione opposta a quella animale: distribuita, decentralizzata, radicata al suolo.
Ogni radice, ogni foglia è un centro di percezione e decisione. Non esiste un cervello che comanda tutto: l’intelligenza è diffusa, e questo rende le piante incredibilmente resilienti. Se una parte viene danneggiata, le altre possono compensare.
Applicare questo modello alle città significa ripensarle come ecosistemi policentrici, capaci di adattarsi ai cambiamenti e di garantire biodiversità funzionale.
Una città vegetale non concentra tutte le funzioni in un solo punto, ma le distribuisce in modo armonico. Non dipende da un’unica attività (come il turismo o la tecnologia), ma offre pluralità di usi e possibilità. Così diventa più resistente agli shock esterni.
Il rischio delle città specializzate: monotonia e vulnerabilità
Il modello animale ci ha spinto a costruire città e quartieri altamente specializzati: intere aree industriali, zone commerciali, distretti finanziari, quartieri universitari, “città dell’intrattenimento”. Questa concentrazione porta però a un rischio enorme: basta un piccolo cambiamento esterno perché l’intero sistema collassi.
Lo vediamo in tante città d’arte trasformate in monoculture turistiche. Prima erano organismi vivi, ricchi di artigiani, studenti, residenti, uffici, mercati. Poi, gradualmente, sono state svuotate delle loro funzioni vitali per diventare parchi a tema per visitatori.
Il Covid-19 lo ha mostrato chiaramente: due anni senza turismo e molte città sono finite sull’orlo del collasso economico.
La specializzazione è fragile. Al contrario, la biodiversità – economica, sociale, culturale – è ciò che garantisce la sopravvivenza. Proprio come negli ecosistemi naturali.
Città vegetali: la via per affrontare la crisi climatica
Il riscaldamento globale cambierà radicalmente il volto delle nostre città: estati torride, carenza d’acqua, migrazioni climatiche, aumento delle disuguaglianze. Un modello urbano rigido e centralizzato non reggerà l’urto.
Le città vegetali offrono un’alternativa.
In esse, i quartieri sono autonomi e multifunzionali, capaci di soddisfare la maggior parte dei bisogni quotidiani senza lunghi spostamenti. Ogni area è pensata per massimizzare la biodiversità sociale e ambientale: residenza, lavoro, cultura, servizi, natura convivono nello stesso spazio.
Questo modello richiama concetti come la “città dei 15 minuti” o la “città diffusa”, ma va oltre: non si tratta solo di ridurre i tempi di percorrenza, bensì di ricreare un metabolismo urbano simile a quello delle piante, capace di autoregolarsi e adattarsi.
Perché le città vegetali sono generaliste
In ecologia, le specie generaliste hanno più probabilità di sopravvivere ai cambiamenti rispetto a quelle specialiste. Lo stesso vale per le città. Una città basata su una sola funzione (turismo, finanza, tecnologia) è come una specie specialista: prospera finché le condizioni restano stabili, ma crolla al minimo cambiamento.
Le città vegetali, invece, sono generaliste: offrono pluralità di attività, diversità economica, spazi verdi integrati, reti sociali diffuse. Questa diversità rende l’organismo urbano più forte, capace di resistere a crisi improvvise e di reinventarsi.
Esempi di città che si muovono verso il modello vegetale
Alcuni esempi reali mostrano come il modello delle città vegetali non sia solo una teoria, ma una direzione concreta già intrapresa in diverse parti del mondo.
A Parigi, il progetto della città dei 15 minuti sta ridisegnando gli spazi urbani per garantire che ogni quartiere abbia scuole, negozi, parchi e servizi a pochi passi, riducendo traffico ed emissioni.
A Singapore, l’integrazione di giardini verticali e foreste urbane negli edifici dimostra come la biodiversità possa entrare nel cuore delle metropoli ad alta densità.
Milano, con l’esperienza del Bosco Verticale, ha mostrato come anche i grattacieli possano diventare ecosistemi capaci di ospitare migliaia di piante e migliorare la qualità dell’aria.
Copenaghen, infine, ha puntato sulla decentralizzazione e sulla mobilità lenta, con quartieri autosufficienti che combinano residenze, lavoro, commercio e natura.
Questi esempi mostrano come la trasformazione verso città più resilienti e diffuse sia già in corso, e confermano che l’urbanistica del futuro dovrà ispirarsi sempre più al modello vegetale.
Imparare dalle piante per ripensare l’urbanistica
Abbiamo costruito le città come animali, e oggi ne paghiamo le conseguenze: inquinamento, fragilità economica, vulnerabilità al clima.
Ma il futuro non è scritto. Possiamo cambiare modello, ispirandoci al mondo vegetale.
Le città vegetali non sono un’utopia, ma una necessità.
Significa progettare spazi urbani decentralizzati, resilienti, biodiversi, capaci di resistere alle crisi e di garantire benessere alle generazioni future.
Così come le piante hanno imparato a vivere senza muoversi, anche le nostre città devono smettere di imitare il corpo animale e diventare organismi vegetali, radicati e resilienti.
Solo così potranno sopravvivere al futuro.
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Fonte originale: https://bikeforgood.it/perche-dobbiamo-costruire-citta-vegetali-futuro-dellurbanistica-secondo-il-modello-delle-piante/
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